La revisione dell’equilibrio economico finanziario nelle concessioni di distribuzione del gas naturale

Premessa. L’ultimo decennio è stato caratterizzato da diversi contenziosi tra gli enti locali e le società concessionarie del servizio di distribuzione di gas naturale in ordine al permanere dell’obbligo di pagare i canoni convenzionalmente pattuiti una volta superata la durata prevista della concessione. La questione ha assunto un particolare rilievo a fronte di una duplice circostanza.

Da un lato, le gare tenutesi nei primi anni duemila hanno portato alla fissazione di canoni di rilevante importo; dall’altro, le tempistiche delle gare d’ambito amplificano la durata del regime di prorogatio e, quindi, la portata economica della diatriba. Sotto tale aspetto si osserva come i ritardi che caratterizzano l’indizione delle gare d’Atem hanno portato la giurisprudenza a ritenere la situazione anomala.

Partendo da tale situazione si ritiene utile fornire alcuni spunti di riflessione.

  1. Le differenze tra l’istanza di revisione dell’E.E.F. e l’azione civile volta ad ottenere il pagamento dei canoni. Tale situazione ha dato vita, anzitutto, a controversie aventi ad oggetto l’adempimento dei contratti e basate sull’ applicazione di diritti soggettivi facenti riferimento a norme civilistiche e, di conseguenza, azionate davanti al giudice ordinario. La giurisprudenza, sia di legittimità che di merito, ha statuito la permanenza dell’obbligo di pagamento e ciò, anche, alla luce della previsione di cui al comma 453 dell’art. 1 della legge L. n. 232/2016.

Nel tempo, poi, si è concretizzato un ulteriore terreno di confronto; vale a dire, la richiesta volta alla revisione dell’equilibrio economico finanziario della concessione (anche solo “riequilibrio” o “revisione dell’E.E.F.”) che dà vita ad un procedimento amministrativo nel quale la P.A. agisce in posizione sovraordinata e che si conclude con un provvedimento ricorribile avanti al giudice amministrativo. In ordine alla sussistenza della giurisdizione di questo non si pongono dubbi. Infatti, l’attività svolta della pubblica amministrazione comporta la rivisitazione delle valutazioni compiute in sede di affidamento del servizio, così delineando chiaramente la natura pubblicistica della procedura (in tal senso, tra le altre, Tar Lombardia- Milano, sent. n. 3068/2023; Cons. Stato, sent. n. 6698/2019).

Nonostante il chiaro impianto, la prassi ha portato a confondere i piani, a volte, attraverso la richiesta di revisione avanzata avanti ai giudici civili, altre volte, volendo inserire nel procedimento amministrativo argomentazioni ad esso estranee ed aventi una matrice civilistica. Ovviamente, le due fattispecie devono essere rigorosamente tenute distinte.

  1. L’applicabilità dell’istituto della revisione dell’E.E.F. alle concessioni di distribuzione del gas. Vale la pena di affrontare una questione preliminare. Da diverse parti è stata affermata l’impossibilità di ricorrere a questo istituto in relazione alle concessioni aventi ad oggetto la distribuzione del gas naturale. Ciò, non tanto sotto il profilo sistematico, essendo pacifico che ci si trova di fronte ad una concessione di servizi, ma in forza di un aspetto particolare; vale a dire, il (potenziale) contrasto tra la previsione contenuta nel Codice dei Contratti Pubblici (o anche “Codice Appalti”) che consente al gestore di recedere dalla concessione in caso di mancato accordo in ordine al riequilibrio e l’obbligo di proseguire la gestione del servizio statuito dal comma 7, dell’art. 14 del D.lgs. n. 164/2000 (cd. “Decreto Letta”).

Tale ragionamento non pare condivisibile. Deve, in proposito, farsi un’osservazione di carattere generale in ordine alla procedura di recesso. Va ritenuto che lo stesso non possa configurarsi ad nutum, cioè a fronte del mero diniego del concedente a procedere alla revisione, ma è necessario che lo stesso sia ingiustificato.

In caso contrario, il concessionario laddove il rapporto non desse i risultati economici auspicati potrebbe chiedere la revisione dell’E.E.F. non motivata su dati oggettivi per poi recedere a fronte del giusto diniego dell’ente pubblico concedente. Così, violando la buona fede e, soprattutto, superando le disposizioni che impongono il passaggio del rischio nelle concessioni, liberandosi degli impegni assunti.

Quindi, la norma va interpretata nel senso che per poter configurare il recesso è necessario che siano accertate, da un lato, la presenza di condizioni idonee a giustificare la revisione e, dall’altro, l’ingiustificato diniego della Pubblica amministrazione.

Tale accertamento non può che avvenire in via giudiziale posto che solo il giudice può definire in modo oggettivo i termini del riequilibrio[1], e solo laddove la P.A non ottemperasse alla decisione si può configurare il diritto di recedere.

A quel punto si può palesare la discrasia con la previsione di cui all’articolo 14 comma 7 D. lgs. 164/2000 ed, in quella sede, la questione andrà affrontata.

Tutto ciò avverrà al termine di un percorso giuridico-amministrativo; per contro, tale ipotesi non può escludere ex ante l’applicazione dell’istituto in esame sul presupposto di un (possibile) contrasto normativo[2].

Inoltre, si osserva che l’applicazione dell’istituto in oggetto è prevista dalla sentenza della Corte costituzione n. 239/2021 e, quindi, sostenere il contrario significa contrastare con quanto affermato dalla stessa.

  1. Le diverse regolazioni succedutesi nel tempo. Si osserva che la materia dei contratti pubblici è stata nel tempo regolata dai diversi compendi normativi che hanno regolato la materia dei Contratti Pubblici nel tempo, vale a dire: la Legge del 11/02/1994 n. 109 che ha regolato la revisione dell’equilibrio all’art 19, comma 2-bis, il Decreto legislativo del 12/04/2006 n. 163 che ha regolato la revisione dell’equilibrio all’art. 143, comma 8, il Decreto legislativo del 18/04/2016 n. 50 che ha regolato la revisione dell’equilibrio all’art. 165, comma 6 e l’attuale normativa, vale a dire, il Decreto legislativo del 31/03/2023 n. 36 che regola la revisione dell’equilibrio all’art. 192.

Ogni rapporto concreto è regolato dalle disposizioni vigenti al momento della pubblicazione degli atti di gara; pertanto, in ordine alle vicende che qui interessano occorrerà fare riferimento alla normativa del 1994 o a quella del 2006, non essendoci affidamenti successivi al 2016.

Va, tuttavia, osservato che le varie norme succedutesi nel tempo hanno regolato l’equilibrio economico finanziario e la sua revisione in modo sostanzialmente omogeneo. In conseguenza, le sentenze e le delibere dell’ANAC intervenute in materia sono da ritenersi riferibili alle problematiche in esame, al di là della normativa direttamente applicabile.

  1. L’assunzione del rischio operativo in capo al privato. Si deve partire dal rilievo che il tratto distintivo delle concessioni rispetto ai contratti di appalto è rappresentato dalla circostanza che in queste debba sussistere un rischio operativo posto in capo al concessionario[3].

Appare utile richiamare la definizione dello stesso data dall’art. 3 del D.lgs. n. 50/2016, alla lettera zz)[4], secondo cui: “Si considera che l’operatore economico assuma il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, per tali intendendosi l'insussistenza di eventi non prevedibili non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione. La parte del rischio trasferita all’operatore economico deve comportare una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dall’operatore economico non sia puramente nominale o trascurabile”.

Quindi, al fine di considerare sussistente un rapporto concessorio è necessario il trasferimento del rischio in capo alla concessionaria.

  1. L’equilibrio economico finanziario. Va, poi, detto che l’ordinamento se, da un lato, impone il passaggio del rischio operativo in capo al concessionario, dall’altro, si preoccupa che i rapporti convenzionali che vengono in essere siano economicamente equilibrati.

In buona sostanza, la normativa intende, da un lato, addossare i rischi al concessionario ma, dall’altro, vuole garantire ragionevoli possibilità di tenuta tecnico economica dell’attività svolta. Infatti, sussiste l’interesse generale che la stessa sia esplicata in modo efficace e sicuro, riverberando i suoi effetti sulla collettività[5].

A tal fine, l’ordinamento prevede che sia garantito l’equilibrio economico e finanziario, definito dall’art 3 del D.lgs. n. 50/2016, alla lettera fff), come: “la contemporanea presenza delle condizioni di convenienza economica e sostenibilità finanziaria. Per convenienza economica si intende la capacità del progetto di creare valore nell'arco dell'efficacia del contratto e di generare un livello di redditività adeguato per il capitale investito; per sostenibilità finanziaria si intende la capacità del progetto di generare flussi di cassa sufficienti a garantire il rimborso del finanziamento”[6].

Al riguardo, l’ANAC, nelle Linee Guida n. 9 approvate con delibera n. 318 del 28 marzo 2018 chiarisce che l’equilibrio economico e finanziario si realizza quando i flussi di cassa derivanti dai ricavi del contratto coprono quelli derivanti dai costi sostenuti per l’esecuzione del contratto, inclusi quelli relativi all’ammortamento del capitale investito netto e alla remunerazione dello stesso ad un tasso che può essere definito congruo e quelli richiesti per versare le imposte.

  1. La revisione dell’equilibrio. Al momento del sorgere del rapporto concessorio, vale a dire, in sede di gara, deve essere accertato sia il passaggio del rischio, sia la sussistenza dell’equilibrio economico finanziario. Ciò alla luce della documentazione che i concorrenti devono presentare in sede di gara, vale a dire la “matrice dei rischi” ed il Piano Economico Finanziario.

Laddove non risultasse garantito l’equilibrio, l’ente concedente dovrà compiere le sue valutazioni prima di procedere all’aggiudicazione e, se del caso, dare vita al procedimento volto ad accertare la presenza di anomalie.

Quindi, è in sede di gara che dovrà essere analizzato il quadro economico del rapporto considerando i ricavi ed i costi verificandone la compatibilità col modello normativo.

Nondimeno, i rapporti concessori sono per loro natura destinati a durare nel tempo; di conseguenza, può sorgere la necessità di accertare la permanenza nel tempo dell’equilibrio.

A ciò, provvede l’istituto del riequilibrio economico finanziario, e di fronte alla eventuale inesistenza, quello della revisione.

  1. La valutazione del riequilibrio deve essere rigorosa. L’analisi delle condizioni alle quali può attuarsi la revisione dell’E.E.F. deve essere rigorosa stante l’eccezionalità dell’istituto. Al riguardo, è illuminante quanto sancito dalla sentenza del Consiglio di Stato n. 343/2019, secondo la quale: “non sussiste in capo all’ente concedente alcun obbligo alla riconduzione del contratto di concessione ad una dimensione di remuneratività economica”. Altrimenti verrebbe superato il rischio operativo gestionale la cui esistenza è una condizione imprescindibile per le concessioni. Venendosi ad integrare una modifica postuma delle condizioni in relazione alle quali si è deciso svolto il confronto competitivo cosi violando i principi concorrenziali. [7]

A conferma del necessario rigore, si consideri che per le opere di interesse statale, ovvero finanziate con contributo a carico dello Stato, la normativa[8] prevede che sia necessario un parere di un organo tecnico, il Nars (Nucleo di consulenza per l'attuazione delle linee guida per la regolazione dei servizi di pubblica utilità)[9]. Tale obbligo non sussiste per gli altri concedenti, quali i Comuni, che tuttavia possono volontariamente chiedere l’intervento del citato nucleo.

Si possono qui indicare gli elementi essenziali dell’istituto.

  • Anzitutto, il procedimento può trovare applicazione solo in presenza di alcuni eventi che hanno portato alla modifica delle condizioni di equilibrio; vale a dire, le modifiche al rapporto apportate dalla stazione appaltante o l’insorgere di norme che stabiliscano nuovi meccanismi tariffari o nuove condizioni per l'esercizio delle attività.
  • L’equilibrio va valutato considerando il rapporto nel suo complesso e partendo dalla situazione definita al momento della stipula della convenzione e l’intervento riequilibratore deve essere volto a ripristinare le originarie condizioni di equilibrio.

Questi concetti vengono analizzati nelle righe che seguono.

  1. Le cause del disequilibrio. Veniamo a considerare il primo caposaldo sul quale si fonda la revisione dell’E.E.F.. Come detto, il procedimento di riequilibrio può trovare applicazione solo in presenza di specifici eventi. La normativa ha mutato nel tempo la definizione degli stessi ma, comunque, sempre in un quadro omogeneo.

L’art. 19, comma 2-bis della Legge del 11/02/1994 n. 109 fa riferimento a modifiche ai presupposti del rapporto apportate dall'amministrazione aggiudicatrice nonché a norme legislative e regolamentari che stabiliscano nuovi meccanismi tariffari o nuove condizioni per l'esercizio.

L’art. 143, comma 8 del Decreto legislativo del 12/04/2006 n. 163 richiama le variazioni apportate dall'amministrazione aggiudicatrice ai presupposti economici nonché il sopravvenire di norme legislative e regolamentari che stabiliscano nuovi meccanismi tariffari o nuove condizioni per l'esercizio delle attività.

L’art. 165, comma 6 del Decreto legislativo del 18/04/2016 n. 50 fornisce indicazioni più generiche richiamando il verificarsi di fatti non riconducibili al concessionario che incidono sull'equilibrio del piano economico finanziario.

Infine, la normativa attualmente in vigore fa riferimento al verificarsi di eventi sopravvenuti straordinari e imprevedibili, ivi compreso il mutamento della normativa o della regolazione di riferimento, purché non imputabili al concessionario.

In sintesi, può individuarsi un comune denominatore nel fatto che le diverse norme considerano presupposti della revisione: eventi straordinari riferibili alla Pubblica amministrazione o comunque non imputabili al concessionario oppure mutamenti normativi relativi alle tariffe o alle condizioni di esercizio delle attività.

  1. Il disequilibrio conseguente alle modifiche normative. In tema di distribuzione del gas, possono escludersi variazioni apportate dalla stazione appaltante, posto che trattasi di un’attività sì affidata dall’ente locale ma in un quadro normativo e regolamentare rigidamente definito, rispetto al quale il concedente non ha alcuna potestà d’intervento.

Rimane da considerare l’intervento di norme che abbiano introdotto nuovi o diversi meccanismi tariffari o nuove condizioni per l'esercizio delle attività ed abbiano inciso sull’equilibrio.

Si richiama l’art. 14 comma 7 del D. lgs. n. 164/2000 che esclude lo svolgimento dell’attività straordinaria una volta formalmente scaduta la durata del contratto.

Ad essere rigorosi, può osservarsi come tale previsione sia antecedente alla stipula delle Convezioni, per cui mancherebbe l’elemento della novità. Sul punto, si rimanda a quanto si dirà nel paragrafo che segue, di modo che tale previsione possa essere considerata idonea a configurare una modifica.

Ovviamente, al fine di configurare la modifica dell’equilibrio economico-finanziario della concessione non è sufficiente l’astratta esclusione dello svolgimento di un’attività, ma occorrerà accertarne le ricadute, quindi, definendo quali attività siano state in concreto impedite e le conseguenze sull’equilibrio.[10]

  1. Il disequilibrio conseguente alle modifiche tariffarie. Quanto alle modifiche tariffarie si osserva che, indubbiamente, ve ne sono state negli anni visto che periodicamente Arera[11] modifica la disciplina tariffaria. Ciò detto, si ritiene utile una duplice precisazione.

Anzitutto, si evidenzia una discrasia. Infatti, da un lato, deve ricordarsi come uno dei tratti che caratterizzano la concessione e la distinguono dal contratto di appalto sia rappresentato dalla sussistenza di un rischio operativo che deve rimanere in capo al concessionario. Tra le svariate declinazioni in cui detto rischio si manifesta vi è anche il “rischio normativo”[12]; quindi, in prima battuta, potrebbe affermarsi che è il concessionario a doversene fare carico. Nondimeno, la revisione dell’E.E.F., a fronte delle modifiche tariffarie, è espressamente prevista dalla normativa sopra riportata. In buona sostanza, si assiste ad una sorta di dicotomia normativa tra la previsione che riconosce rilevanza alla modifica delle tariffe e la previsione del rischio tariffario che deve rimanere in capo al concessionario.

Dovendo trovare una sintesi tra tali previsioni si ritiene ragionevole riconoscere il rilievo della specifica previsione in tema di riequilibrio; nondimeno, viste tali premesse, la questione andrà affrontata con rigore e prudenza.

Un ulteriore aspetto riguarda la circostanza che al momento della stipula dell’accordo fosse noto al concessionario il periodico mutare della regolazione tariffaria. La circostanza è tale da escludere il carattere di straordinarietà.

Nondimeno, deve osservarsi che al momento dell’inizio del rapporto non fossero ragionevolmente preconizzabili le tempistiche delle gare in evidente ritardo rispetto al quadro tracciato dalla normativa. Quindi, il carattere eccezionale può essere riferito non tanto all’intervento normativo ma alla durata del rapporto. In buona sostanza, la maggior durata del rapporto non costituisce automaticamente un presupposto per la revisione dell’E.E.F. (si rimanda a quanto scritto al paragrafo 14) ma può dar vita all’esame degli effetti sul rapporto delle modifiche tariffare.

  1. Il riequilibrio deve essere riferito al rapporto considerato nel suo complesso. Una volta delineate le cause che possono condurre alla revisione dell’E.E.F. è necessario definire il quadro entro il quale il riequilibrio deve avvenire.

Al riguardo, deve osservarsi che le conseguenze delle modifiche intervenute non devono essere considerate come entità a sé stanti ma devono essere rapportate all’intero quadro economico, di modo che laddove questo sia nel suo insieme positivo o, comunque, stabile, potrà assorbire le eventuali specifiche modifiche negative[13].

Al riguardo, non possono sorgere ragionevoli dubbi; infatti, in generale, il concetto di equilibrio di un rapporto non può che riguardare le diverse componenti economiche di questo e, quindi, la loro sintesi. Non potendosi limitare a considerarne solo alcune. Ad esempio, se all’aumento dei costi corrisponde quello dei ricavi l’equilibrio non muta.

Egualmente gli scostamenti devono avere una sostanziale consistenza economica non potendosi configurare un requisito di automatica revisione a fronte della minima modifica inidonea ad inferire sui rapporti complessivi.

Inoltre, la revisione dell’E.E.F. deve essere finalizzata a determinare il ripristino degli indicatori di equilibrio economico e finanziario nei limiti di quanto necessario alla sola neutralizzazione degli effetti derivanti da uno o più degli eventi che hanno dato luogo alla revisione.

  1. Il riequilibrio deve essere riferito alla situazione sussistente al momento della stipula della concessione. La sussistenza di uno squilibrio deve essere accertata raffrontando la situazione definita al momento della stipula della Convenzione con quella attuale e, di conseguenza, l’intervento riequilibratore deve essere volto a ripristinare le originarie condizioni di equilibrio.

Si ritiene che non possa essere considerata solo la situazione attuale e la sua convenienza economica. In buona sostanza, l’istituto in esame non può essere utilizzato da un concessionario “pentito” per rivedere le condizioni del rapporto concessorio, ma opera solo nel caso in cui sia necessario porre rimedio alle modifiche sopravvenute.

Da un lato, il dato lessicale non lascia spazio a dubbi. Il termine ri-equilibrio non può che essere inteso a ripristinare l’equilibrio in precedenza esistente.

Dal punto di vista sistematico, va osservato che è sulla base di questo equilibrio che si è sviluppata la procedura di selezione e si è definito il rapporto tra concedente e concessionaria. Situazione dalla quale non può evidentemente prescindersi, pena lo scardinamento dei meccanismi concorrenziali.

Una conferma a questa conclusione viene fornita dall’esame della normativa che si è succeduta nel tempo mutando nelle espressioni letterali ma mantenendo la stessa ratio volta a raffrontare la situazione attuale con quella originaria.

L’art. 19 comma 2 -bis della Legge del 11/02/1994, n. 109 fa riferimento alle variazioni dei presupposti e delle condizioni di base.

L’art. 143 comma 8 del Decreto legislativo del 12/04/2006, n. 163 fa riferimento ad eventi sopravvenuti che incidano in modo significativo sull'equilibrio economico-finanziario dell'operazione

Entrambe le disposizioni, richiamando variazioni o eventi sopravvenuti individuano chiaramente il raffronto tra la situazione pregressa e quella attuale

L’art. 165, comma 6 del Decreto legislativo del 18/04/2016 n. 50 è più generico, facendo riferimento all’ incidenza degli eventi sull'equilibrio.

E’ però l’art. 192 del Decreto legislativo del 31/03/2023 n. 36 a fornire una più esauriente indicazione. Lo stesso è ratione temporis applicabile solo ai rapporti sorti dopo la sua entrata in vigore quindi non si riferisce alle problematiche legate al gas (le gare risalgono più di un decennio orsono). Tuttavia, lo stesso può essere assunto a paradigma interpretativo avendo meglio esplicitato i principi espressi in modo più sintetico dalle precedenti norme. In particolare, dispone che la revisione debba essere volta a ricondurre il contratto: “ai livelli di equilibrio e di traslazione del rischio pattuiti al momento della conclusione del contratto”. Il riferimento al momento della conclusione del contratto non lascia spazio a dubbi [14].

Una conferma arriva anche dall’esame dele Linee Guida dell’Anac laddove al punto 5.12 dispongono che la revisione del PEF “è finalizzata a determinare il ripristino degli indicatori di equilibrio economico e finanziario” cosi evidenziando il rapporto con la situazione originaria[15].

  1. La sussistenza di uno squilibrio iniziale. Il meccanismo logico-giuridico che sottende la revisione dell’equilibrio parte dal presupposto che il rapporto si sia istaurato in una situazione economicamente equilibrata essendo questo, come visto nel paragrafo 5, il modello dettato dalla legge, non potendosi fisiologicamente configurare un rapporto disequilibrato. In conseguenza, ogni intervento riequilibratore non può che essere volto a riportare il rapporto alle condizioni iniziali di equilibrio.  

In buona sostanza, si ha un sillogismo in forza del quale la situazione di partenza è data dalla sussistenza di un equilibrio di modo che, a fronte di un successivo disequilibrio, occorre tornare alla prima e, quindi, a ristabilire l’equilibrio.

La questione che qui si pone riguarda il particolare caso che il rapporto concessorio fosse già disequilibrato (cioè in perdita) sin dall’inizio, fattispecie che, in alcuni casi, potrebbe presentarsi in materia di distribuzione del gas.

La problematica non è specificamente regolata in quanto prende spunto da una situazione patologica (il disequilibrio iniziale) non considerata dell’impianto normativo che, invece, presuppone la sussistenza dell’equilibrio.

In assenza del presidio normativo si procede nelle righe che seguono ad illustrare un possibile percorso interpretativo.

Va valutato se il principio che prevede il confronto tra la fattispecie originaria e quella attuale possa essere superato dalla sussistenza di una inopinata iniziale condizione di squilibrio.

Al riguardo, non può ignorarsi che ci si trova di fronte ad una situazione volontariamente definita dal concessionario che ha presentato l’offerta ed ha predisposto il PEF[16]; in tal modo, affermandone la sostenibilità economica della stessa. In alcune ipotesi, tale situazione risulta confermata dalla verifica di anomalia nella quale il concessionario ha svolto una funzione fondamentale[17].

In conseguenza, si sono definite le condizioni tecnico-economiche che hanno delineato il rapporto e che sono sfociate nella conclusione di un contratto e nel conseguente sorgere di diritti soggettivi così cristallizzati.

Al riguardo, si richiama il comma 2, dell’art. 192 del Decreto legislativo del 31/03/2023 n. 36 che, al di là della sua concreta applicazione ratione temporis, appare idoneo a definire la questione. Questo prevede che in sede di revisione dell’E.E.F. non possano essere disposte modifiche che alterino la natura della concessione, o che, se fossero state contenute nella procedura iniziale di aggiudicazione della concessione, avrebbero portato ad un esito diverso[18], così violando la disciplina concorrenziale.

Non può sfuggire che l’esercizio di un’attività di pubblico interesse a condizioni economicamente insostenibili possa creare problemi operativi.

Nondimeno, il superamento del quadro economico originario e la sua sostituzione con una diversa regolazione, appare difficilmente compatibile con i principi e la normativa ora illustrati, anche alla luce della condotta posta in essere dalla concessionaria in sede di gara.

In ogni caso, anche laddove non fosse condivisa questa conclusione e venisse ritenuta praticabile una postuma modifica delle condizioni ciò dovrebbe, al più, ritarare la concessione onde consentirne l’esercizio senza tuttavia attribuire alcuna remuneratività all’attività, visto il carattere eccezionale dell’intervento.

  1. Il superamento del termine formale di durata non è di per sé motivo di revisione. La giurisprudenza civile è granitica nel prevedere che i canoni vadano pagati nella misura convenzionale prevista nel contratto di servizio e ciò anche dopo la formale scadenza dello stesso.

Non foss’altro che, in tal senso, è inequivocabile il disposto del comma 453 dell’art. 1 della legge L. n. 232/2016.

La sentenza Corte cost. n. 239/2021, nel respingere con una pronuncia di inammissibilità a carattere decisorio la questione di incostituzionalità di detta previsione, ha individuato la procedura di riequilibrio quale rimedio ad eventuali distorsioni provocate dalla prosecuzione dell’obbligo di pagamento del canone[19].

In particolare, ha osservato che i concessionari non possano lamentare la violazione dei loro diritti a seguito della continuazione del rapporto concessorio e (soprattutto) del conseguente obbligo di pagamento del canone.

Deve allora osservarsi che il riequilibrio non è una conseguenza della prosecuzione del rapporto ma è un rimedio a fronte del mutare delle condizioni economiche durante la prosecuzione dello stesso. Si noti che l’istituto in oggetto può essere invocato durante lo svolgimento del rapporto nel periodo convenzionalmente previsto, avendo appunto un diverso presupposto rispetto alla formale durata.

In buona sostanza, può dirsi che il superamento della durata formale non è di per sé una condizione che da sola porta alla procedura di riequilibrio. A rilevare, infatti, sono le condizioni in cui l’attività è svolta e qui si ritorna a quanto scritto sopra.

D’altro canto, la prosecuzione non dovrebbe avere conseguenze negative sul rapporto in essere trattandosi di reiterare gli effetti di un contratto che la parte ha volontariamente sottoscritto; anzi, in molti casi, il rimedio richiesto dal concessionario (ed anche previsto dalla legge) è proprio dato dalla continuazione del rapporto, mentre laddove così non fosse, si può applicare il meccanismo del riequilibrio.

  1. L’irrilevanza di ulteriori motivi di revisione invocati. In conclusione, si ritiene utile analizzare le argomentazioni più di sovente richiamate dai concessionari nelle richieste di revisione
  • In alcuni casi, i concessionari pretendono che la verifica venga limitata alla situazione attuale omettendo qualsiasi confronto con quella originaria. L’erroneità di tale modus operandi appare evidente alla luce di quanto osservato al paragrafo 12 a cui si rimanda.
  • Altre volte, i concessionari fondano la loro domanda prendendo in considerazione solo alcune specifiche voci del rapporto esimendosi dal considerare il quadro complessivo. L’erroneità di tale modus operandi appare evidente alla luce di quanto osservato al paragrafo 11 a cui si rimanda.
  • Sovente, in tale ottica, viene lamentata la diminuzione dell’entità delle tariffe fissate dall’ARERA che fissano la remunerazione delle attività dei concessionari, vale a dire il VRD (vincolo ricavi di distribuzione), con la conseguente riduzione dei ricavi. Al riguardo, si richiama quanto scritto al punto che precede in ordine alla circostanza che la revisione deve avere ad oggetto l’intero rapporto non potendosi riferire solo ad alcune voci. Ad esempio, se insieme ai ricavi diminuiscono i costi l’equilibrio permane.

Inoltre va osservato che la politica tariffaria posta in essere da ARERA, è volta ad indurre i concessionari a compiere scelte operativa atte a contenere i costi. Per cui l’operatore che agisce in tal senso ottiene una contestuale riduzione dei costi mantenendo l’equilibrio; laddove non lo faccia non può far ricadere sul concedente gli effetti della sua inefficienza e della sua condotta contraria ai dettami dell’Ente regolatore[20].

  • Un’ulteriore argomentazione parte dall’analisi dei meccanismi tariffari, osservando come il VRD sia costituito da diverse componenti destinate a diverse funzioni, vale a dire: alla copertura dei costi operativi, al rimborso degli ammortamenti nonché alla remunerazione del capitale investito. In conseguenza, è affermato che le prime due poste devono rimanere nella disponibilità del gestore[21].

Nondimeno, una simile argomentazione appare rapportabile al momento della stipula della convenzione[22] ed alla verifica dell’esistenza dell’ equilibrio, ma non già al momento successivo in cui i rapporti sono consolidati e possono essere modificati solo col meccanismo della revisione.

  • Vi è poi la richiesta di fare riferimento ai principi di correttezza e buona fede richiamati dagli articoli. 1175,1366 e 1375 c.c.. Tale argomentazione non appare condivisibile; infatti, in presenza della specifica disciplina di settore, vale a dire quella della revisione dell’equilibrio economico finanziario, il ricorso a rimedi di portata generale porterebbe all’implicito superamento di questa. La sentenza del Consiglio di Stato n 7200 del 24/07/2023 pur riconoscendo che tali principi debbano trovare applicazione nella fase esecutiva dei rapporti negoziali ha evidenziato come “non è sostenibile che in un ambito normativo e culturale caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di interessi pubblici e privati gli stessi possano spingersi sino a integrare specifici obblighi di rinegoziazione in deroga alla specifica disciplina pubblicistica ex art. 106, d.lgs. 50/2016, tanto meno alle condizioni che il privato ritiene soddisfacenti per le sue esigenze di imprenditore”[23]
  • Un’ulteriore dissertazione si sostanzia nella pretesa di applicazione dei criteri di determinazione delle tariffe dettati per le future gare d’ambito evidenziati dal D.M 12/11/2011 n 226. Nondimeno tale ragionamento non tiene conto della circostanza che la normativa dettata per delle future gare non possa essere applicata ad un rapporto definito in presenza di un diverso quadro normativo e oltretutto consolidatosi in un vincolo contrattuale[24].

Inoltre, appare evidente come una siffatta richiesta sia estranea al meccanismo della revisione dell’equilibrio dettato dalla legge.

Avv. Sergio Cesare Cereda

 

 

[1] La sentenza della Corte di Cassazione n. 2352 del 24/01/2024, a conferma di quanto sopra, in tema di un’istanza di riequilibrio della concessione ha statuito che: “in caso di mancata o negativa risposta dell'amministrazione, potrebbe anche essere fatta valere nelle competenti sedi giurisdizionali”.

[2] Quanto al superamento dell’apparente discrasia si richiama quanto statuito dalla sentenza n. 1408/2022 del Tribunale di Busto Arsizio, in un giudizio vertente in materia di concessione del servizio di distribuzione del gas naturale, secondo la quale: “Ed infatti, la norma non preclude l’esperimento dei rimedi posti a tutela del concessionario ma si limita ad affermare, come sopra ripetuto, la prosecuzione del rapporto, riguardante tutte le posizioni giuridiche soggettive ad esso inerenti tra cui, nei limiti in cui ne ricorrano i presupposti, la facoltà di recesso unilaterale”.

[3] In tal senso, tra le altre, le Sentenze della CGSA, n. 343/2019 e del Consiglio di Stato n. 2426/2021; Tar Piemonte n 1153/2021.

[4] La normativa pregressa e quella successiva non contengono invece alcuna definizione nondimeno vista la portata generale di quella qui richiamata si ritiene che possa essere riferita anche ai rapporti istaurati in costanza di queste.

[5] In tal senso le sentenze del Cons. Stato n. 2214/ 2018 e Tar Lazio n 17819/2022

[6] Vale lo stesso ragionamento sviluppato alla nota sub 3.

[7] Cfr. Sentenza del Consiglio di Stato n. 343/2019, secondo la quale: “non sussiste in capo all’ente concedente alcun obbligo alla riconduzione del contratto di concessione ad una dimensione di remuneratività economica. Laddove infatti si postulasse (come invocato dall’appellante) l’esistenza di un siffatto obbligo in capo all’amministrazione, ne resterebbe minata alla radice la stessa sussistenza del rischio operativo gestionale e, in via diretta, la stessa qualificabilità del contratto come concessione. La scelta dell’amministrazione di accordare ex post una rimodulazione degli aspetti economici del contratto in corso di esecuzione si porrebbe in contrasto con i princìpi libero concorrenziali, determinando una modifica successiva delle condizioni in relazione alle quali si è svolto il confronto competitivo fra più potenziali concessionari

[8] Ad eccezione della prima normativa dei Contratti Pubblici (L. n. 109/1994).

[9] La normativa del 2023 prevede altresì l’intervento del del Dipartimento per la programmazione e il coordinamento della politica economica (DIPE)

[10] Ad esempio, nei periodi successivi alla scadenza formale sono stati compiuti interventi di notevole impatto economico da parte dei concessionari, tra i quali la sostituzione dei cd. «smart-meters» essendo la stessa stata imposta dalla normativa di settore.

[11] Vale a dire, l’Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambienti.

[12] Si veda la lettera a) del punto 2.4 delle Linee Guida n 9 dell’ Anac approvate con delibera n. 318 del 28 marzo 2018,

[13] In tal senso, TAR Piemonte-Torino, sent. n. 1153/2021.

[14] La già citata sentenza del Consiglio di Stato sentenza del 26 aprile 2019 n .343: “Tanto premesso dal punto di vista generale, la mancata corrispondenza fra costi operativi gestionali e canone concessorio (con conseguente perdita di esercizio per il gestore) rappresenta pur sempre un – non auspicabile, ma possibile – evento connesso all’ordinaria dinamica gestionale”

[15] Si veda TAR Piemonte-Torino, sent. n. 1153/2021.

[16] Per il vero, in alcune gare per la distribuzione del Gas tale documento non è stato predisposto; nondimeno, l’equilibrio può essere ricavato dall’esame del quadro economico.

[17] Si pensi al caso in cui nell’ambito della procedura abbia sostenuto la sostenibilità economica dell’offerta.

[18] Consentito l'ammissione di candidati diversi da quelli inizialmente selezionati o l'accettazione di un'offerta diversa da quella inizialmente accettata, oppure attirando ulteriori partecipanti alla procedura di aggiudicazione della concessione.

[19] Unitamente al secondo il quale decorsi i termini per la conclusione del procedimento amministrativo e negli altri casi previsti dalla legge, chi vi ha interesse può chiedere l'accertamento dell'obbligo dell'amministrazione di provvedere

[20] Per evidenti ragioni la revisione non può essere fondata sui risultati economici negativi risultanti dal bilancio della società vista la portata generale di questi

[21] Anche sulla base della nota ARERA prot. n. 2263 del 31.07.2003.

[22] Addirittura la sentenza del TAR Milano n. 139/2012 ha respinto un’analoga contestazione fatta in sede di gara affermando che “la pianificazione del servizio appaltato non può dirsi affetta da eccessiva onerosità, dal momento che alla procedura hanno comunque partecipato due soggetti, e che la società provvisoriamente aggiudicataria, odierna controinteressata, ha dichiarato, sia nella relazione richiesta in sede di chiarimento da parte dell’Amministrazione comunale, sia nei propri scritti difensivi, di ritenere l’appalto pienamente remunerativo

[23] la sentenza della Corte di Cassazione n. 24057/2023, che ha ritenuto inammissibile la domanda di "rideterminazione" del canone non riferita alla specifica disciplina del Codice degli appalti

[24] Sull’inapplicabilità del D.M. 226/2011 cd « regolamento sui criteri di gara » alle concessioni per la distribuzione del gas stipulate ante emanazione della norma, si veda Cons. Stato, sent. n. 2617/2025, secondo cui “(…) per il principio generale delle successioni di leggi nel tempo (art. 11 preleggi) tali previsioni normative non possono che operare per il futuro, vale a dire per le convenzioni stipulate successivamente alla loro entrata in vigore, non potendo invece in alcun modo derogare ad assetti convenzionali sottoscritte prima di tale momento, come appunto nel caso di specie.”


Alcune osservazioni sulla portata della sentenza della Corte di Giustizia UE n. 693 del 17/05/2022

Premessa. La Corte di Giustizia UE con la sentenza n.693 del 17/05/2022 ha statuito un principio che avrà un indubbio rilievo nelle procedure esecutive basate sul titolo costituito da un decreto ingiuntivo non opposto, laddove ci si trovi di fronte a contestazioni legate alla sussistenza di clausole abusive/vessatorie nei confronti di un consumatore[1]. Nelle righe che seguono si analizzerà detta pronuncia e si procederà a ricostruire il quadro normativo su cui è basata.

I La tutela del consumatore verso le clausole abusive.

1.1 Il primo caposaldo del presente ragionamento parte dal rilievo, normativo e giurisprudenziale, che il sistema di tutela istituito con la direttiva 93/13 si fonda sull'idea che il consumatore si trovi in una posizione di inferiorità nei confronti del professionista[2]. In conseguenza l’art articolo 6, paragrafo 1, della direttiva dispone che la normativa nazionale debba prevedere che le clausole abusive contenute in un contratto stipulato fra un consumatore ed un professionista non vincolino il consumatore, restando il contratto per il resto vincolante sempre che esso possa sussistere senza le clausole abusive[3]. In forza di questa disposizione imperativa, tesa a realizzare un equilibrio reale ed a ristabilire l'uguaglianza tra tali parti, il giudice nazionale è tenuto a accertare d'ufficio il carattere abusivo di una clausola contrattuale che ricade nell'ambito di applicazione della direttiva 93/13[4].

1.2 A livello comunitario sono considerate abusive/vessatorie le clausole che determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto. A livello domestico il decreto legislativo del 6 settembre 2005, n. 206 (codice del consumo) provvede ad individuare, all’art 33 le clausole abusive/vessatorie. Anzitutto al primo comma richiama la definizione di cui sopra considerando vessatorie quelle che provocano uno squilibrio, la vessatorietà in questo caso deve essere accertata caso per caso. Al secondo comma sono individuate una serie di figure nelle quali la vessatorietà è presunta si tratta di situazioni nelle quali vengono riconosciuti vantaggi al professionista o imposti svantaggi al consumatore. Si tratta di una presunzione superabile (ai sensi dell’art 34) anzitutto laddove il professionista dimostri che tenuto conto della concreta situazione manchi il carattere vessatorio. Inoltre la presunzione può essere superata laddove il professionista dimostri che l’adozione della stesse sia stata oggetto di trattativa. L’art 36 dispone che alcune tipologie di clausole che abbiano un contenuto particolarmente sfavorevole per il consumatore[5] sono nulle quantunque anche laddove siano state oggetto di trattativa.

1.3 Infine tale norma dispone che la nullità opera soltanto a vantaggio del consumatore e può essere rilevata d'ufficio dal giudice. Sin qui si delinea un quadro volto a dare al consumatore una tutela efficace nel corso delle procedure giudiziarie.

II La preclusività della cosa giudicata.

2.1 Il secondo caposaldo del ragionamento riguarda l’efficacia del giudicato. L'articolo 2909 del codice civile dispone che l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti. Rapportando questi principi alla procedura d’ingiunzione si può affermare che il decreto ingiuntivo che non sia stato oggetto di regolare opposizione acquista autorità di cosa giudicata. Sia in ordine al credito azionato, ma anche in relazione al titolo posto a fondamento dello stesso, precludendo in tal modo ogni ulteriore esame delle ragioni addotte a giustificazione della relativa domanda. Così realizzando il giudicato implicito in base al quale il giudice che si è pronunciato su una determinata questione abbia necessariamente risolto tutte le altre questioni preliminari.

2.2 Principi questi presenti anche nel diritto comunitario infatti la stessa sentenza qui analizzata provvede a ricordare: “l'importanza che il principio dell'autorità di cosa giudicata riveste sia nell'ordinamento giuridico dell'Unione sia negli ordinamenti giuridici nazionali”[6]. In conseguenza in base al principio del giudicato nel caso in cui sia iniziata un’azione esecutiva avente come titolo un Decreto ingiuntivo non opposto il potere del giudice sarebbe limitato al mero controllo dell'esistenza del titolo esecutivo e non potrebbe estendersi al controllo del contenuto intrinseco dello stesso.

III La prevalenza del diritto del consumatore.

3.1 Qui si pone la questione oggetto della sentenza. La riflessione parte dal rilievo che la direttiva 93/13 (al ventiquattresimo considerando) stabilisce che “le autorità giudiziarie e gli organi amministrativi degli Stati membri devono disporre dei mezzi adeguati ed efficaci per far cessare l'inserzione delle clausole abusive contenute nei contratti stipulati con i consumatori”. La pronuncia evidenzia che è poi la disciplina domestica a stabilire il modo in cui il giudice nazionale deve assicurare la tutela di tali diritti dei consumatori. Nondimeno l’autonomia degli stati membri non è assoluta infatti le norme nazionali non devono rendere nei fatti impossibile o eccessivamente difficile l'esercizio dei diritti conferiti dal diritto dell'Unione (principio di effettività) inoltre tali norme non devono essere meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe assoggettate al diritto interno (principio di equivalenza)[7].

3.2 In conseguenza si deve stabilire se tali esigenze di tutela impongano al giudice di controllare l'eventuale carattere abusivo di clausole contrattuali dispetto della normativa che prevede l’intangibilità del giudicato. Laddove ci si trovi di fronte ad una decisione giudiziaria che astrattamente definisce la materia ma non contenga valutazioni in ordine alla eventuale sussistenza di clausole vessatorie. Al riguardo la giurisprudenza, che è già intervenuta su questioni simili (ed in ordine all’ordinamento di altri stati), ha fissato il principio in base al quale il giudicato può essere superato quando la decisione formatasi non rispetta i principi di equivalenza e di effettività il cui rispetto, come visto sopra, limita l’autonomia degli stati membri.

3.3 Chiariti questi aspetti è possibile concentrarsi sulla questione specifica affrontata nella sentenza in oggetto, vale se a dire a fronte dell’istaurazione di una procedura esecutiva basata su un titolo esecutivo costituito da un decreto ingiuntivo non opposto, il giudice di tale procedura possa essere chiamato a conoscere dell’eventuale abusività delle clausole relative al contratto concluso tra le parti. È appena il caso di ricordare come il diritto nazionale in linea generale non consenta al giudice dell'esecuzione di riesaminare un decreto ingiuntivo avente autorità di cosa giudicata. Quindi, riprendendo il ragionamento di cui sopra, i giudici comunitari si sono chiesti se tale autorità copra l’eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto di fideiussione. Va precisato che la questione si pone per il caso in cui manchi qualsiasi esame espresso della questione, da parte del giudice che ha emesso tale decreto ingiuntivo in caso contrario il giudicato costituirebbe un vincolo invalicabile e non vi sarebbe alcuna discussione[8].

3.4 La Corte ha applicato il principio espresso al punto 3.2 che vede la recessività del giudicato laddove ci si trovi di fronte alla necessità di rispettare i principi di equivalenza e di effettività. La sentenza in ordine all’equivalenza specifica che l’ordinamento domestico non consente di superare il giudicato in presenza di particolari situazioni quali ad esempio la violazione delle norme nazionali di ordine pubblico (nelle quali la giurisprudenza comunitaria fa rientrare le disposizioni poste a tutela dei consumatori), e quindi non ci si troverebbe di fronte ad un trattamento più sfavorevole per il consumatore. Diverso è il discorso riferito al principio dell’effettività la Corte pur osservando che il rispetto del principio di effettività non possa giustificare la completa passività del consumatore interessato[9] ha previsto che “in assenza di un controllo efficace del carattere potenzialmente abusivo delle clausole del contratto di cui trattasi, il rispetto dei diritti conferiti dalla direttiva 93/13 non può essere garantito”[10]. In buona sostanza il diritto attribuito ai consumatori dalla direttiva è ritenuto prevalente rispetto a quello alla certezza dei rapporti garantito dal giudicato, e quindi una condanna deve essere basata su una preventiva analisi delle problematiche in oggetto i cui esiti devono essere esplicitati nel provvedimento giurisdizionale. Così fissando il seguente principio “Ne consegue che, in un caso del genere, l'esigenza di una tutela giurisdizionale effettiva impone che il giudice dell'esecuzione possa valutare, anche per la prima volta, l'eventuale carattere abusivo delle clausole del contratto alla base di un decreto ingiuntivo emesso da un giudice su domanda di un creditore e contro il quale il debitore non ha proposto opposizione”.

IV Osservazioni di sintesi.

4.1 Una volta ricostruita la fattispecie vale la pena di compiere alcune riflessioni di sintesi. Vanno anzitutto considerate le conseguenze della sentenza in esame sulle procedure esecutive. Infatti si appalesa il rischio che le stesse vengano ritardate a fronte della richiesta del debitore/consumatore, esplicitata con l’opposizione, di vedere accertata l’eventuale abusività delle clausole. Paradossalmente la mancata opposizione al decreto ingiuntivo rischia di rendere più complessa, o quantomeno più disordinata la procedura di recupero del credito. In punto di diritto la richiesta di analizzare la legittimità delle clausole può essere fatta solo da chi assommi la figura del debitore a quella del consumatore ed a fronte della lamentata presenza delle specifiche clausole individuate dal codice del consumo. Quindi ci si trova in un perimetro limitato, nondimeno per gravare sulla procedura esecutiva è sufficiente che venga presentata un’opposizione al di là della sua fondatezza. Un indubbio peso sul punto rivestirà la decisione in ordine alla sospensiva di cui all’art 624 cpc., anche se in caso di mancata concessione della sospensione, per il creditore si palesa un rischio risarcitorio, laddove la sentenza che riconosce la presenza di clausole abusiva intervenisse dopo la vendita del cespite.

4.2. La sentenza pone altresì una questione di carattere sistematico infatti le modalità di emissione di un decreto ingiuntivo non prevedono che lo steso venga motivato e quindi che venga esplicitata la mancanza di clausole abusive, come richiesto dalla giurisprudenza comunitaria. Da un lato non è detto che il giudice proceda ad una siffatta analisi posto che è il creditore ad allegare la documentazione necessaria e (ritenuta) sufficiente per ottenere l’accoglimento del ricorso e quindi questa potrebbe non consentire una ricostruzione sul punto. Inoltre anche a fronte del deposito dei documenti e della loro analisi di norma il giudice non motiva il provvedimento. Quindi il decreto ingiuntivo non sia stato opposto si presenta il rischio di un’opposizione in sede di esecuzione.

4.3 Va poi considerato che al di fuori della questione specifica qui trattata, inerente alla mancata opposizione ad un decreto ingiuntivo, la giurisprudenza comunitaria analizzata ha applicato il principio che consente il riesame, anche a fronte di sentenze di merito che non hanno accertato e motivato in ordine a delle clausole abusive. Al riguardo si richiama la già citata sentenza Banco Primus C-421/14, EU:C:2017:60 che ha considerato il caso in cui nell’ambito di una precedente processo che ha portato all’adozione di una decisione munita di autorità di cosa giudicata, il giudice sia limitato ad esaminare solo talune delle clausole contrattuali. Al riguardo ha statuito che il giudice interessato della questione in una procedura successiva (ad esempio in sede di esecuzione) sarà legittimato “a valutare, su istanza delle parti o d’ufficio qualora disponga degli elementi di diritto e di fatto necessari a tal fine, l’eventuale carattere abusivo delle altre clausole di detto contratto”.

4.4 In buona sostanza la giurisprudenza della Corte di Giustizia Eu crea un’evidente incertezza che potrebbe essere superata tenendo una condotta prudenziale e per certi versi innaturale, e cioè portare all’attenzione del giudice degli aspetti potenzialmente negativi. In altri termini chiedendo una pronuncia al Giudice in ordine ad espetti che di norma è il debitore ad avere interesse a sollevare. Quindi il creditore dovrebbe chiedere al giudice in sede di ricorso per decreto ingiuntivo ed al giudice delle cause di cognizione di accertare la mancanza di clausole abusive/vessatorie.

[1] Vale a dire di qualsiasi persona fisica che agisce per fini che non rientrano nel quadro dell'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta.

[2] Si veda la sentenza del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C-421/14, EU:C:2017:60, punto 40

[3] Si vedano le sentenze del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punti 53 e 55, e del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C-421/14, EU:C:2017:60, punto 41).

[4] Si vedano le sentenze del 14 marzo 2013, Aziz, C-415/11, EU:C:2013:164, punto 46 e giurisprudenza ivi citata; del 21 dicembre 2016, Gutiérrez Naranjo e a., C-154/15, C-307/15 e C-308/15, EU:C:2016:980, punto 58, e del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C-421/14, EU:C:2017:60, punto 43).

[5] Vale a dire quelle che portano a a) escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un'omissione del professionista; b) escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un'altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di adempimento inesatto da parte del professionista; c) prevedere l'adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto.

[6] Si vedano le sentenze del 6 ottobre 2009, Asturcom Telecomunicaciones, C-40/08, EU:C:2009:615, punti 35 e 36, e del 26 gennaio 2017, Banco Primus, C-421/14, EU:C:2017:60, punto 46)

[7] Si veda la sentenza del 26 giugno 2019, Addiko Bank, C-407/18, EU:C:2019:537, punti 45 e 46

[8] Si veda la sentenza del 26 gennaio 2017, Banco Primus (C-421/14, EU:C:2017:60), punto 49

[9] Sentenza del 1° ottobre 2015, ERSTE Bank Hungary, C-32/14, EU:C:2015:637, punto 62.

[10] Si veda la sentenza del 4 giugno 2020, Kancelaria Medius, C-495/19, EU:C:2020:431, punto 35

 


Un’interessante sentenza del Tribunale di Monza limita le conseguenze dell’adozione di una fideiussione basata sul modello elaborato dall’ABI nel 2002.

Una recente sentenza del Tribunale di Monza emessa il giorno 8 luglio del 2022 n. 1593/2022 è intervenuta, fornendo spunti interessanti, sulla annosa e “famigerata” questione legata alla sorte degli impegni assunti in forza di una fideiussione che contenga clausole aventi un contenuto simile a quello del modello elaborato dall’ABI. Vale allora la pena di compiere alcune sintetiche riflessioni, partendo dall’inquadramento della questione per poi considerare il contenuto specifico della sentenza.

  1. La condotta anticoncorrenziale. La vicenda trae origine dal fatto che nell'ottobre del 2002, l'ABI (Associazione Bancaria Italiana) ebbe a predisporre uno “schema negoziale tipo” per la fideiussione a garanzia di operazioni bancarie, questo fu comunicato alla Banca d'Italia che all’epoca svolgeva funzioni antitrust in relazione al settore bancario[1]. Questa (col provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005) concluse che tale schema presentava alcune clausole, in particolare quelle di cui agli articoli 2 (clausola di reviviscenza), 6 (clausola di sopravvivenza) e 8 (rinuncia al termine decadenziale di cui all’art. 1957 c.c) idonee a restringere la concorrenza. In particolare, laddove vengano applicate in modo diffuso, sono da considerarsi in contrasto con la Legge Antitrust n. 287 del 1990, il cui art. 2 vieta le intese tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare la concorrenza. Tale norma nel disporre che gli accordi vietati sono nulli non ha ritenuto riferirsi solo alle "intese" in quanto contratti in senso tecnico ma a qualsiasi condotta volta a realizzare la distorsione della concorrenza, tanto che la tutela è stata riferita anche alle ipotesi in cui l'impresa che ha stipulato un contratto a valle con il consumatore, non abbia partecipato all'intesa a monte.

In buona sostanza è sufficiente che abbia inteso approfittare della stessa.

  1. La nullità riguarda solo le clausole censurate dall’ABI. Un’altra discussione ha riguardato la determinazione del perimetro della nullità, essendo sorto il dubbio se la stessa debba riferirsi alla totalità della fideiussione oppure solo alle clausole oggetto del provvedimento della Banca d’Italia. Tale seconda interpretazione che individua la nullità parziale ai sensi dell’art 1419 del codice civile ha avuto il sopravvento[2]. Sul ragionevole presupposto che il contratto sarebbe comunque stato sottoscritto anche in assenza delle clausole contestate, di certo il garante non può lamentarsi del fatto che la fideiussione sia depurata da disposizioni per lui lesive. D’altro canto la banca ha interesse a mantenere in essere la fideiussione seppur limitata nella sua efficacia. Si osservi che secondo la prevalente giurisprudenza[3] è posto a carico di chi ha interesse a delineare la nullità dell’intero contratto l’onere di fornire la prova dell'interdipendenza tra le clausole in oggetto e l’intero contratto (o nel caso la fideiussione) tale da escludere che in mancanza di queste vi sarebbe stata la sottoscrizione.
  2. Le ricadute sui singoli contratti. Definita l’illegittimità della condotta sotto il profilo della disciplina concorrenziale si tratta di comprendere quale ricaduta abbia sulle fideiussioni stipulate a valle. La giurisprudenza all’inizio ha escluso una tutela ai consumatori, per poi ammetterla ma solo di tipo risarcitorio. Salvo riconoscere una tutela reale, con conseguente nullità dell’accordo fideiussorio, sul rilievo che la tutela della libertà di concorrenza deve avere come destinatari chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo del mercato. Non v’è dubbio che il contraente finisce col soffrire degli effetti della limitazione delle tipologie di fideiussioni conseguente all’accordo[4], posto che il soggetto che necessita di essere garantito e quindi di conseguenza il garante, non possono individuare la soluzione ritenuta più proficua. Si noti che secondo la giurisprudenza il far valere la nullità ha ricadute positive non solo nell'interesse esclusivo del singolo, bensì in quello della trasparenza e della correttezza del mercato, così collegando l’azione (amministrativa) a monte e quella (civilistica) a valle. In buona sostanza i contratti a valle di accordi contrari alla normativa antitrust partecipano della stessa natura anticoncorrenziale dell'atto a monte, e vengono ad essere inficiati dalla medesima forma di invalidità[5]. Tanto che la giurisprudenza ha affermato che “teorizzare la profonda cesura tra contratto a monte e contratto a valle, per derivarne che, in via generale, la prova dell'uno non può mai costituire anche prova dell'altro, significa negare l'intero assetto, comunitario e nazionale, della normativa antitrust, la quale (4 è posta a tutela non solo dell'imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato"[6]. Un ulteriore elemento è dato dal peso attribuito agli accertamenti compiuti dalla Banca d’Italia ai quali è riconosciuta una elevata attitudine a provare tanto la condotta anticoncorrenziale, quanto l'astratta idoneità della stessa a procurare un danno ai consumatori e consente di presumere[7].
  3. La sentenza del Tribunale di Monza, la rilevanza del nesso di causalità. Può tranquillamente affermarsi che ci si trovi di fronte ad un quadro non certo favorevole alle banche che rischiano di vedere invalidate, quasi in modo automatico, le clausole fideiussorie. Resta tuttavia da compiere una riflessione nella quale si inserisce la sentenza qui considerata, che ha l’indubbio merito di raccordare il quadro giurisprudenziale formatosi in relazione alla specifica questione fin qui analizzata con alcuni fondamentali principi: ci si riferisce all’onere della prova al nesso di causalità. La sentenza in oggetto[8] parte dal rilievo che “la violazione della normativa anticoncorrenziale costituisce un fatto ulteriore e distinto rispetto al contenuto delle singole clausole che restano di per sé valide e legittime, poiché relative a norme derogabili”. Deve infatti osservarsi che le clausole non presentano intrinseci profili d’illegittimità rapportabili al loro contenuto, le censure derivano dalla loro applicazione “diffusa” che ha impedito al fideiussore di effettuare una scelta libera tra le possibili alternative. In mancanza di un’applicazione massiva e quindi idonea ad impedire una scelta del modello di fideiussione ci si troverebbe di fronte ad un legittimo rapporto contrattuale. Da qui la necessità di accertare che all’epoca della firma della garanzia mancasse questa libertà di scelta giacché altrimenti verrebbe meno il nesso causale tra la condotta posta in essere a monte (l’attività dell’ABI) e la fideiussione stipulata a valle. In buona sostanza deve accertarsi che la limitazione della concorrenza debba sussistere anche al momento della stipula dell’accordo altrimenti il nesso di causalità sarebbe inesorabilmente interrotto. Al riguardo nei casi (come quello oggetto dell’odierna attenzione) in cui la garanzia sia stata sottoscritta successivamente all’ accertamento della Banca d’Italia non potrà farsi automaticamente riferimento a questo che si riferisce ad un diverso periodo storico, al contrario la situazione dovrà essere dimostrata. La sentenza ricorda che: “D’altronde, perché il meccanismo dell’invalidità derivata possa trasmettersi dalla violazione anticoncorrenziale ai sottostanti contratti a valle è necessario accertare preliminarmente l’esistenza di un nesso di stretta interdipendenza con l’intesa a monte idoneo ad incidere sulla regolare dinamica della contrattazione individuale ed elidere la libertà negoziale dei singoli contraenti”.
  4. La sentenza del Tribunale di Monza, l’onere della prova. Ulteriore conseguenza di questa ricostruzione è l’allocazione dell’onere della prova in capo al soggetto che fa valere in giudizio una pretesa, nel rispetto del principio fissato dall’art 2967 del codice civile, principio correttamente fissato dalla sentenza in esame anche nel rispetto della giurisprudenza della Cassazione[9] secondo la quale “compete all'attore che deduca un'intesa restrittiva provare il carattere uniforme della clausola che si assuma essere oggetto dell'intesa stessa”. Nel caso di specie l’onere deve essere posto a carico del fideiussore che intende fare valere la nullità. Può allora concludersi che al garante è almeno chiesto uno sforzo per ottenere la dichiarazione di nullità della clausola fideiussoria.

[1] In ogni nell’istruttoria è stata coinvolta anche l'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato.

[2] Si veda Cas SS UU n 41994/2021

[3] Si veda la nota precedente

[4] In tal senso Cass. SS.UU., 04/02/2005, n. 2207

[5] In tal senso Cass. SS. UU., n. 2207/2005

[6] In tal senso Cass. n. 2305 2007.

[7] In tal senso Cass n.13846 22/05/2019, 6

[8] Sulla stessa line anche la sentenza del Tribunale Monza n 23/2021.

[9] Cass. n.13846/ 2019

 


Rapporti tra PPP e PNRR in tema di efficientamento energetico

Riportiamo qui il riassunto dell'intervento al VIII Workshop CESEF dell'Avv. Sergio Cesare Cereda - Milano, 03 marzo 2022

Il PNRR in questo momento storico sta catalizzando l’interesse generale, è allora normale chiedersi come lo stesso possa incidere sulle attività di efficientamento energetico della Pubblica amministrazione. In particolare quale sia il rapporto con la figura del Partenariato pubblico privato, che costituisce un’efficace modalità per eseguire tali interventi.

Il ricorso al PPP garantisce all’ente concedente un duplice vantaggio: evita di dover investire le somme richieste dagli interventi di riqualificazione e pone a carico del privato il rischio in relazione ai risultati degli interventi. Inoltre in tal modo l’ente pubblico utilizza le rilevanti competenze tecniche degli operatori privati, beneficio ancora più evidente nelle ipotesi di Partenariato ad iniziativa privata.

Come si prospetta la finanza di progetto in presenza dei finanziamenti di cui al PNRR?

La stessa mantiene le sue potenzialità nel caso i contributi pubblici non siano sufficienti a coprire tutti gli oneri degli interventi, e questo è il quadro che in concreto si prospetta in forza del PNRR. Infatti le misure previste in relazione all’efficientamento energetico dei comuni hanno un impatto limitato e di certo insufficiente a coprire il fabbisogno. L’art 1 della legge del 27/12/2019 n. 160 regola l’attribuzione, a pioggia, di contributi ai comuni per i cosiddetti piccoli interventi, ogni comune è certo di ricevere dei finanziamenti ripartiti su più anni ma in misura insufficiente a sostenere efficaci interventi di efficientamento. Mentre l’art 1 della legge del 30/12/2018 n.145 regola l’attribuzione di contributi ai comuni per i cosiddetti medi interventi, in questo caso gli importi riconosciuti sono più rilevanti ma limitati ad alcuni interventi selezionati.

In realtà le somme rinvenienti dal PNRR costituiscono un asset parziale e, come qualsiasi contributo pubblico, possono incidere sul quadro economico finanziario dell’intervento migliorando i parametri per il committente, ad esempio aumentando gli interventi offerti oppure diminuendo l’importo del canone o la durata della concessione. Se ad esempio le condizioni di partenza prevedono la manutenzione e gestione anche di uno stabile, sul quale successivamente (grazie ai finanziamenti) vengono svolti sull’involucro degli interventi di efficientamento, a fronte del miglioramento delle condizioni di esercizio dovrà essere prevista una riduzione del canone.

Appare allora opportuno raccordare le regole del partenariato con i finanziamenti derivanti dal PNRR, in concreto si dovrà agire sui meccanismi contrattuali. Laddove i finanziamenti siano certi (si pensi a quelli a pioggia) si terrà conto degli stessi sin dal momento della predisposizione della gara, inserendoli nel piano economico finanziario.

Se invece il finanziamento non è certo ma solo possibile, il progetto (iniziale) dovrà essere determinato senza tenerne conto, ma deve esserne prevista una modifica a fronte della futura possibilità di realizzare gli interventi finanziati. Interventi che migliorando le condizioni di prestazione del servizio consentono di intervenire sugli indicatori economici dell’operazione.

In concreto potrà prevedersi che gli interventi (aggiunti) siano realizzati direttamente dal concessionario, oppure che siano realizzati dall’ente pubblico (attraverso normali procedure di appalto) e poi messi a disposizione del concessionario che si prenderà in carico la gestione degli immobili e degli impianti così efficientati.

Lo stesso modello giuridico economico può essere riferito ad una diversa modalità di finanziamento: il Conto Termico erogato dal GSE. Trattasi di uno specifico strumento di incentivazione dettato per gli interventi di efficientamento energetico (esclusa l’illuminazione pubblica). Si osservi che lo stesso ha un peso economico ancor più rilevante, arrivando a coprire almeno il 65% degli investimenti.

Anche in questo caso si tratta di coordinare il rapporto concessorio con gli incentivi. La normativa prevede due distinte modalità di erogazione. Il finanziamento a consuntivo, che prevede l’erogazione del sostegno una volta che i lavori siano terminati ed a condizione che permanga una disponibilità di fondi in capo al GSE. Quindi la figura presenta elementi d’incertezza in ordine all’ottenimento della sovvenzione ed è assimilabile al finanziamento “incerto” di cui s’è detto sopra. È poi previsto il finanziamento a prenotazione nel quale è possibile conseguire la certezza del finanziamento sin dal momento in cui la prenotazione è accettata. In questo caso le problematiche nascono dalla (eccessivamente) ristretta tempistica per la realizzazione dei lavori.

 


WordPress Lightbox Plugin